Breve storia di un Vino

Published on Settembre 3, 2013 by admin

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Last modified Settembre 3, 2013

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La pax romana si esprimeva anche in avvenimenti minori. Quando una legione aveva l’ordine di stabilire, in colonia, un accampamento permanente, per prima cosa, dopo aver tracciato il piano generale, fra cardo e decumano, iniziava a coltivare, in un orto, lattuga e aglio: ancor oggi, specie in Gran Bretagna, gli archeologi cercano, per stabilire dove si trovasse un insediamento imperiale, se nella zona restano tracce di piante di lattuga inselvatichite. La seconda operazione per i legionari, se si prevedeva di rimanere molto a lungo, era l’impianto della vigna, affidata poi alle popolazioni locali, affinché si dedicassero, nel modo più proficuo e piacevole, al culto di Bacco. Da ciò l’estendersi della viticoltura in quasi tutti i territori dell’impero. La vite era già conosciuta anche in Gallia, nelle cui province meridionali, con centro a Marsiglia, la sua introduzione era dovuta ai greci. Se di là il vignoble sia risalito fino al territorio dell’attuale Champagne o se vi sia stato “imposto” dai romani, è tema controverso, specie fra gli storici francesi: fra gli argomenti pro e contro vi sarebbe una citazione a favore del “già fatto” di Plinio (ritenuta però apocrifa da Franpois Bonal, autore del più esauriente libro sullo Champagne pubblicato fino ad ora: “Le livre d’or du Champagne” mentre chi sostiene la tesi dell’apporto da parte degli invasori, segnala la mancanza di ogni notizia enoica nel De bello gallico di Giulio Cesare. L’intervento romano, in Champagne come in tutto il resto d’Europa, si fa sentire pesantemente con il famoso editto di Domiziano, anno 92 della nostra era, che imponeva di sradicare le viti nelle colonie: protezionismo a favore dei vini italiani, ma anche, scrive ancora Bonal, politica economica per avere maggiori disponibilità di grano. L’editto resta, in teoria, valido fino al sesto anno del regno di Probo, dal 276 al 282, quando l’imperatore lo revoca e dà ordine alle legioni di ricominciare a impiantare vigneti. Ma gli storici sono d’accordo nel riconoscere che, durante quei due secoli di proibizioni, ben pochi – specie in Gallia – obbedirono agli ordini, preferendo il rischio di essere puniti per una inadempienza, alla rinunzia di una bella bevuta. E già allora le sbornie erano considerate la logica conseguenza e il premio di una giornata di lavoro intenso. II cristianesimo, grazie al sacramento dell’Eucaristia, sottrae il vino a Bacco e lo consacra sull’altare. Anche in seguito a questo si scelgono dei santi patroni per il vino: primo, fra tutti, San Vincenzo (Saint Vincent). È il protettore della Borgogna e viene spontaneo promuoverlo a santo di quei vigneti prima, e più tardi di tutti quelli di Francia, Champagne compreso (è Saint Loup, vescovo di Troyes, a promuovere l’iniziativa). Ma, ben presto, la regione ha un santo tutto suo: Remi, eletto vescovo di Reims nel 470. A lui si deve un miracolo enoico: il santo uomo consegna a Clodoveo, re dei Franchi, una fiasca – o un barilotto – pieno di vino, ovviamente di Champagne, garantendo che, finché re e cavalieri ne berranno, la vittoria sarà loro. Clodoveo beve e, gli uni dopo gli altri, sbaraglia Alemanni, Borgognoni, Visigoti e diviene re di tutta la Gallia: e il recipiente è sempre pieno, benché condottiero e stato maggiore vi attingano abbondantemente. Ma il vero miracolo, che salva dalla – quasi certa – distruzione i vigneti europei dalla “sacra furia” dei musulmani che aborrono il vino, avviene a Poitiers, il 7 ottobre del 732, quando Carlo il Martello sconfigge definitivamente i Mori, provenienti dalla Spagna. All’inizio del nuovo secolo, sarà merito di Carlo Magno regolare, con i capitolari de Villis, anche fattività enoica del Sacro Romano Impero. Per molti secoli – è del 1361 l’aggregazione formale del territorio al regno di Francia – la Champagne darà dei vini rossi e “grigi” (vins gris), apprezzati, ma di caratteristiche non troppo dissimili da quelle degli altri vini, prodotti in diverse province francesi. Si ricorreva a grossolane sofisticazioni, colorando i vini bianchi – allora poco apprezzati- con decotto di bacche di sambuco e cremor di tartaro. I vignaioli della Champagne sapevano che il loro vino aveva il brutto difetto di diventare pétillant e cercavano di limitare questa caratteristica incontrollabile, finché si accorsero che si trattava, invece, di un pregio da mettere in risalto. Tutto il merito, grazie a una lettera di un monaco, Dom Grossard, scritta nel 1805, ma resa nota sessantuno anni dopo dal produttore Louis Perrier, andò a un frate, per di più astemio e vegetariano, vissuto dal 1639 al 1715: il celeberrimo Dom Pérignon. A lui, con troppa facilità, si sono attribuite tutte le “scoperte” che hanno dato allo Champagne i caratteri che gli conosciamo: dalla “presa di spuma”, all’esaltante leggerezza. La storiografia recente, da André Simon al già citato Bonal, tende a far un po’ di chiarezza. Che i vini della Champagne fossero spumanti, lo si sapeva da sempre: e anche dopo Dom Pérignon, gran parte dei consumatori francesi continuarono per lungo tempo a preferire gli Champagnes “calmi” a quelli con la spuma. Anche l’adozione del tappo di sughero, in sostituzione della “caviglia” di legno avvolta di canapa imbevuta d’olio, avviene nei “suoi” anni (Pérignon entra nell’abbazia di Hautvillers nel 1668) ma non per merito suo: si adotta un sistema già applicato in Spagna, dove il sughero è di casa da gran tempo. Idem per la bottiglia di vetro scuro, robusto, di modello inglese, che “sconfigge” quelle di vetro leggero, con rivestimento in vimini (non è la sola Toscana a conoscere il fiasco). E sarà la bottiglia “forte” a consentire la seconda fermentazione in vetro. A Dom Pérignon, “cellérier” (economo) del convento di Hautvillers, anche i suoi moderni detrattori, riconoscono un grande merito: l’adozione della cuvée, ossia la scelta dei grappoli da spremere insieme, anziché il ricorso alle miscele di mosti o al taglio dei vini adottate prima di lui. Gran conoscitore di uve egli le sceglieva, stabilendo le proporzioni da rispettare prima della pigiatura ed era tanto sicuro, che continuò quest’opera anche negli ultimi anni, quando non ci vedeva quasi più. La sua eredità fu raccolta da fratello Oudard, dello stesso ordine, che continuò per altri 27 anni l’opera del maestro. Tutto il resto, si dice ora, è fantasia: l’invenzione – sempre di Dom Pérignon – della flúte, poi sostituita dalla coppa (la maliziosa leggenda parla delle donne celebri, da Maria Antonietta alla Pompadour, che avrebbero offerto il loro seno perfetto quale “stampo” per un recipiente così poco adatto a valorizzare il perlage) e il segreto, confidato in punto di morte al successore: per ottenere un buon Champagne, aggiungere al mosto zucchero candito, sei pesche senza nocciolo, cannella e acquavite “bruciata”. Un miscuglio poco probabile, valido solo per indicare che lo Champagne è nato come vino dolce. È una caratteristica che il vino “della follia e della gioia” manterrà a lungo (giustificando così la presentazione a fine tavola, con il dessert) e che conserva ancora oggi, anche dopo il declino non solo del “decisamente dolce” (doux) ma dei tipi da noi definiti amabili o abboccati (e che le etichette chiamano demi sec) sostituiti dai bruts molto secchi. Almeno questa è l’idea suggeritaci, oggi, dai nostri gusti: ma a smentirla, almeno parzialmente, sono le indicazioni di esperti dell’Ottocento, per i quali lo Champagne è il vino più adatto per gli arrosti, in quanto l’effervescenza avrebbe un effetto benefico sulla digestione delle carni più “robuste”. Comunque siano andate le cose, ancor oggi molti turisti in visita ad Epernay rendono omaggio alla statua di Don Pérignon, eretta nel cortile della maison più legata al suo ricordo, la Moët & Chandon e quasi tutti si fermano all’ingresso delle città, davanti a un breve tratto di collina tagliato dall’alto in basso, dove affiora la “craie”, quel particolare tipo di gesso che forma il sottosuolo della regione. Le guide spiegano che le inimitabili virtù del celebre vino vengono soprattutto dalle caratteristiche geologiche del terreno in cui le viti penetrano con le radici. Verso il 1950 – lo testimonia in un suo libro – lo storico della cucina e dei vini Pierre Andrieu fece una proposta al Ministero della Marina francese: dare a uno dei nascenti transatlantici, in costruzione dopo la débacle della guerra, il nome di Dom Pérignon. Naturalmente, a bordo si sarebbe bevuto solo Champagne, con grande gioia degli americani che stavano per riscoprire le strade d’Europa. Ovunque, i politici, purtroppo, sembrano fatti apposta per non dar corso alle belle iniziative: non se ne fece nulla. Per gran parte del XVIII secolo, il contrasto fra quanti vogliono lo Champagne “tranquillo” e quelli che lo preferiscono pétillant, continua, anche se, alla fine, sarà il secondo tipo a prevalere. Ma già allora si delinea, con chiarezza, la caratteristica fondamentale da cui avrà origine la diffusione, su scala mondiale, del vino: a produrlo e a venderlo non sono i vignaioli isolati, ma delle grandi famiglie il cui nome diventerà sinonimo di Champagne di qualità. È un fenomeno che accomuna la nobiltà “terriera” e i possidenti oculati di molti Paesi: mentre il grano, gli altri cereali, i prodotti dei frutteti e dei campi sono venduti anonimi (fra le poche eccezioni, in Toscana, l’olio di oliva anch’esso “etichettato”), al vino del domaine si riconosce il privilegio d’essere insignito del blasone di famiglia, se c’è, o almeno del nome e di un simbolo della casata (durante la Belle Epoque, Boni de Castellane trasformò in etichetta di uno Champagne “tenuto a battesimo” da lui, la casacca bianca con croce azzurra di Sant’Andrea dei suoi fantini). Oggi ancora, dai Domecq (a Jerez de la Frontera) ai Loredan (in terraferma veneziana), l’usanza continua: chi non ha un blasone vero e proprio, inserisce nello scudo l’iniziale, come fanno i Krug. Sul chi “abbia cominciato”, le storie dello Champagne sembrano concordare: secondo Bonal il primato spetterebbe a Ruinart, che inizia fattività aziendale nel 1729. Dello stesso parere è Pierre Andrieu, per il quale il negoziante Nicola Ruinart avrebbe avuto come zio il monaco benedettino Henri, vissuto – da studioso, non da vinificatore – anche lui ad Hautvillers, proprio nei giorni di Dom Pérignon. Nome illustre, discendenza elevata e nobiltà – diventano conti di Brimont – e azienda di “famiglia” fino al 1919, quando l’ultimo visconte, Gérard, si ritira e Ruinart diviene una società anonima. Radici ancora più antiche, secondo Patrick Forbes, per un nome celebre, quello di Moët. Nel 1369 vive a Reims un sieur Le Clerc che è, nonostante quel nome, olandese. In politica, prende le parti di re Carlo VII contro gli inglesi. A chi gli chiede il perché di quella scelta, risponde nella lingua dei padri: “Het moet zoo zijn”, ossia “deve essere così”. Quanto basta per consentire ai concittadini di chiamarlo monsieur Moët: e il soprannome passa ai discendenti. Grazie al titolo nobiliare conferito da Carlo VII, quando arriva a Reims con Giovanna d’Arco, i Moët diventano “gente che conta”. A metà del XVI secolo, uno di loro è gran priore del convento di Saint Remi. Tempo dopo, una demoiselle Moët sposa un De la Salle, cugino del fondatore delle Scuole Cristiane. E, finalmente, nel 1716, Claude Moët entra nel ramo che ci interessa come courtier de vins, ossia di intermediario fra produttori e negozianti, poi si mette a imbottigliare e a vendere in proprio. Ha clienti d’eccezione: anno 1744, numero 540 bottiglie di Champagne frizzante al duca di Noailles, altre 1954 alla marchesa di Montespan; due anni dopo, 1179 bottiglie al maresciallo Di Saxe, consegna presso il quartier generale a Bruxelles (in guerra, bisogna “tenersi su”) e appena 200 bottiglie – ma seguiranno altri ordini – a Madame de Pompadour. E, finalmente, nel 1787, le prime cento bottiglie in America. Arriva la rivoluzione francese: e, con essa, la possibilità di un buon affare. I giacobini danno lo sfratto ai domenicani di Hautvillers e un altro Moët, Jean Remy, si compera la “culla” dello Champagne, l’abbazia, il vignoble e, capitale non inventariato (ma che darà origine a una celebre etichetta, attribuita a Isabey, il miniaturista di corte di Napoleone 1) il ricordo di Dom Pérignon. Dopo la battaglia di Lipsia, e con “ritorno” in seguito a Waterloo, i coalizzati invadono anche la Champagne e saccheggiano molte cantine. Russi e inglesi fanno a gara nell’ubriacarsi. Come pare abbia fatto la collega e rivale Madame Clicquot, anche Jean Remy Moët – che ci ha rimesso 600 mila bottiglie – dice: “non mi preoccupa il saccheggio: diventeranno i miei migliori commessi viaggiatori”. La storia dice che Madame Clicquot abbia esclamato: “Lasciate che bevano! Se bevono, pagheranno più care le prossime.” L’anno dopo, festa in famiglia: Adele, figlia del titolare, sposa il nobile Pierre Gabriel Chandon de Briailles, che si dimostra ottimo collaboratore del suocero: entra in azienda e, nel 1832, quando Jean Remy decide di ritirarsi unisce il suo cognome a quello della moglie. Da allora, sull’etichetta si legge Moët & Chandon. E, in ricordo dei bei giorni in cui Napoleone appuntava la Legion d’Onore sul frac del “padrone”, si continua a vendere il brut Imperial. Legata, com’è, alle grandi famiglie, in cui i matrimoni “d’alleanza” prevalgono su quelli d’amore, la storia dello Champagne è ovviamente influenzata dalle donne, la cui dote è formata da vigneti e cantine. La nota particolare, per quanto riguarda questo vino, è data dal fatto che a conferirgli nome e fama, siano due vedove: notissima la prima, quasi sconosciuta l’altra, nonostante il suo contributo al consumo dello Champagne sia stato decisivo. Barbara Nicoletta Ponsardin trascorre gli anni dell’infanzia e della prima giovinezza a Reims, lasciando passare, nella tranquillità di casa sua, rimasta fuori dalla tempesta, gli anni della rivoluzione. Nel 1799, ventenne, sposa François Clicquot, proprietario di vigneti e banchiere, e il ricevimento di nozze ha luogo in cantina. Matrimonio felice, ma di breve durata: nel 1805 Madame è già vedova, con una figlioletta, Clémentine. Barbara non si perde d’animo e non liquida l’azienda: con l’aiuto dei collaboratori, e soprattutto del fedele e attivissimo monsieur Bohne (a leggere la corrispondenza – d’affari – fra i due, si ha l’impressione che egli abbia svolto un’azione determinante per le fortune della ditta), va avanti sicura per la sua strada che porterà al successo, grazie anche ad un’operazione, per allora, molto ardita. Nel 1812, a breve distanza dai saccheggi delle cantine di cui si è detto, il fedele Bohne carica, a Le Havre, 10 mila bottiglie di Champagne sul battello olandese Gebroeders e punta su Königsburg, raggiunta dopo un mese di fortunosa navigazione (non c’è trattato di pace, siamo ai limiti del contrabbando). Il 15 ottobre le casse sbarcano a San Pietroburgo: o, almeno lo si può fare di quelle salvate, poiché circa la metà del carico si è persa, per i tappi saltati. Quanto resta è venduto alla nobiltà russa a 12 rubli la bottiglia. Il vino della vedova Clicquot è definito giallo come l’oro, forte come quello dell’Ungheria; il che dimostra quanto, da allora, lo Champagne sia cambiato. Al primo carico ne seguono molti, di Madame e dei suoi concorrenti. II vino di Champagne diviene uno degli elementi indispensabili, dopo la vodka servita con gli antipasti, del pranzo alla russa. Quella che verrà definita, durante la Belle Epoque, la tournée dei granduchi (che visitano città, ma soprattutto ristoranti) è alimentata a Champagne. Un trionfo internazionale, che si estende in gran parte d’Europa, in America e “ha risvolti di costume” stranissimi, come quello, di recente istituzione, del battesimo di una nave con una bottiglia lanciata dalla madrina contro la prua. Per secoli, scrive Pierre Andrieu, la nobildonna che presiedeva il varo, si limitava a regalare al capitano il gatto di bordo (i topi erano un problema). Nel 1817 Clémentine sposa il conte Louis de Chévigné, squattrinato e spendaccione. La casa va avanti lo stesso grazie a madame mère, che si ritira nel 1842 nel suo castello. Ha poco più di sessanta anni, oggi sarebbe una donna di mezza età, eppure, per una strana forma di civetteria alla rovescia, insiste nel dare di sé un’immagine della Grande Dame, corpulenta, vestito vedovile nero, velo sui capelli. Morirà nel 1866, alla veneranda età di 88 anni, lasciando l’azienda al socio e successore Edouard Werlé. L’altra vedova celebre è Louise Melin, sposata a Louis Alexandre Pommery, socio di Narcisse Greno, fondatore, nel 1836, di una piccola azienda vinicola. Nel 1856, Pommery rileva la quota sociale di Greno e diviene unico proprietario: purtroppo, due anni dopo, muore. Louise, che allora di vino non sapeva nulla, si decide: avrebbe portato avanti 1’affaire: aveva quarant’anni, molta energia e dei buoni collaboratori. II mercato “tirava”: era sufficiente assecondarlo. Ed è qui che l’intuito della vedova Pommery si rivela geniale. Fosse o no seguita la regola “segreta” di Dom Pérignon, lo Champagne continuava ad essere un vino dolce, adatto per il dessert, mentre la nouvelle vague della grande cucina era sempre più influenzata dai gusti della clientela russa, “centrati” sul salato: caviale, storione affumicato, blinis (semplicemente cetrioli in salamoia). Un vino secco avrebbe avuto maggiore successo. Anche altri lo hanno intuito: Bonal segnala che già verso il 1860 si erano fatte prove, specie per il mercato inglese, di Champagne non zuccherati. Ma è la produzione 1874 della Pommery & Greno a diventare famosa con il goût américain, che apre la strada al dry e, finalmente (il nome è quello di “cantina” dei vini rimasti allo “stato bruto”) al brut. La richiesta è tale che Madame Pommery azzarda un’operazione audace: fa costruire nuovi stabilimenti in stile gotico inglese (forse il ricordo di un suo viaggio a Londra) e “buca” 18 chilometri di collina, per ottenere grandi caves. Quando muore, nel 1890, la casa (affidata al marito della figlia, il marchese di Polignac – una dinastia che darà alla Francia un Cognac e al Principato di Monaco un sovrano) esporta oltre due milioni di bottiglie l’anno. Albero genealogico che formerebbe il tormento e la delizia di un araldista, è quello degli Heidsieck. Si comincia con il fondatore, Florent Louis, nel 1785 a Reims: poi si procede con nuove “immissioni” e allontanamenti, il che provoca la nascita di nuove etichette, che conservano il nome “di base”. Nel 1837 troviamo un’altra vedova, quella di Christian, che mette il suo nome in ditta, ma si risposa con il socio Henry Guillame Piper, dando così origine allo Champagne Piper Heidsieck ed infine nel 1923, la Heidsieck & Cie Monopole. Il personaggio più pittoresco è Charles, detto dai suoi amici americani, Champagne Charlie: un discendente vissuto fra “Secondo Impero, crinoline, guerra di Secessione e Champagne”, come ha scritto Joseph Henriot in un romanzo ispirato dalle memorie di quel produttore­avventuriero. La “rosa” dei nomi si allarga sempre di più. Nel 1846 sono circa centoventi, in tutto il territorio. Joseph Jacob Bollinger fonda la sua azienda nel 1829, specializzandosi, grazie ai contatti personali, nel commercio con la Germania. II destino gli riserva una singolare fortuna: un suo piccolo vigneto resterà indenne dalla filossera, quando l’epidemia arriva nel 1890 nella Champagne, e ancora oggi dà una minuscola produzione (circa duemila bottiglie solo nelle annate migliori) di vino chiamato Vieilles Vignes Françaises, per distinguerlo da quello ottenuto da vigneti innestati su piede americano. Joseph Krug fonda la sua azienda, che produrrà, in quantità limitata, vini di grande prestigio, nel 1843; anche in questa famiglia brilla la presenza di una donna: Jeanne Krug, che, durante la guerra mondiale del 1915, dirige l’azienda ed è in prima linea come crocerossina e animatrice della ricostruzione di Reims. Nel 1827, una casa vinicola dal nome decisamente banale, Dutois & C. cambia proprietario e, dal nome del nuovo titolare, diviene la Louis Roederer. Un nome fin troppo “interessante” e, infatti, mentre la dinastia continua – a Louis succedono i nipoti – arriva da Strasburgo un omonimo, Théodore Roederer, che non solo sfrutta la fama dell’altro, ma cerca di imitarne anche imballaggi ed etichette. Ne nasce una causa civile che si concluderà – queste vicende vanno sempre per le lunghe – solo nel 1904. II Roederer “vero” si è specializzato nell’esportazione in Russia, dove la nobiltà e la grossa borghesia sono sempre più assetate di Champagne. Magari rovinandolo. Un certo Hugo, maître da Maxim’s nei bei giorni dell’Esposizione Universale del 1889, ha lasciato, nelle sue memorie, due testimonianze interessanti: “uno di quei boiardi aggiungeva, nel bicchiere, una o due gocce di profumo di violetta, e un altro si faceva servire il Pommery in una scorza di ananas fresco, appena svuotato dalla polpa”. A Roederer, lo zar Alessandro II fece sapere che voleva un tipo di bottiglia speciale: e l’esportatore gliene fece fare una di puro cristallo trasparente. In vetro, la “trovata” resta ancora oggi in commercio: la cuvée “Cristal” di Roederer. Caso anomalo quello della casa Mumm, ben nota ovunque per le sue caratteristiche etichette bianche attraversate, in diagonale, da una striscia di colore – le cordon – variante a seconda del tipo di Champagne contenuto nelle bottiglie (il più famoso è il cordon rouge). Fondano l’impresa, nel 1827, due tedeschi, P.A. Mumn e Friederich Giesler. Nel 1838 Hermann Mumm, nipote del fondatore, resta solo. Non vorrà mai assumere la cittadinanza francese. Così, nel 1914, allo scoppio della guerra, gli sequestrano l’azienda, che diviene, nel 1920, società anonima. Un recente arrivo, per quanto riguarda questo rapido ed incompleto panorama, è, nel 1932, quello di Pierre Taittinger. In compenso, l’azienda vinicola alla quale egli dà il suo nome è una delle più antiche dello Champagne: era stata messa in luce, nel 1734, da un certo Alexandre Forneaux, nel domaine della Marquetterie dove fratello Oudart – discepolo di Dom Pérignon, lo si è detto – aveva cominciato a imbottigliare per conto suo. Questi accenni di storia, è facile costatarlo, si fermano tutti, salvo poche eccezioni, al secolo scorso. Eppure (basta entrare in un’enoteca per rendersene conto) i nomi sulle etichette non sono cambiati. È un segno di continuità dinastica alla quale non si rinunzia, anche se talvolta le grandi famiglie hanno ceduto il potere a nuove dinastie, o, più facilmente, a società anonime o a gruppi finanziari. Troppo facile dire che tutto questo ha anche un significato culturale, è il frutto di un’eredità (a proposito di vigneti, si potrebbe parlare, fuor di metafora, di radici) che il bevitore, se non è completamente impreparato, finisce per avvertire. Tutti i grandi vini, di ogni provenienza, hanno un loro potere rievocativo; testimoniano a quanto possa giungere, secondo la formula sacrale, il ” frutto della vite e del lavoro dell’uomo”. In più, per lo Champagne, valgono le virtù di una massima riportata da Pierre Andrieu: “La raison est représentée par la liquer, l’esprit par la mousse”.

 

dalla Cartella stampa

Comité interprofessionnel du Vin de Champagne

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